Quando uno spettatore si trova di fronte a delle opere d’arte, altro non fa che osservare la riproduzione stessa della realtà. Questo è un concetto che applichiamo a tutti i generi artistici e a tutti i movimenti culturali che hanno trasformato nei secoli l’idea di arte e, di conseguenza, l’idea di bello e brutto.
La realtà, anche se non effettiva, viene riportata secondo delle visioni, delle percezioni che legano intimamente l’artista all’opera e al suo contesto originale. Soprattutto nella fotografia – perché di fotografia si tratta – la realtà viene catturata, imbrigliata su supporto fisico o virtuale in cui frammenti di pura oggettività percettiva si mescolano con la sensibilità dell’artista.
La realtà che ci viene mostrata da Paolo Gidoni è una realtà distorta, modificata dal suo stesso gesto, dagli strumenti forniti dalla tecnologia. La fotografia si avvale di un concetto che riguarda strettamente la letteratura, ovvero che la lingua e le parole danno voce a ciò che è reale, un concetto che Paolo, in quanto editore, conosce bene. In questo modo possiamo dunque dire che la fotografia dà un’immagine a ciò che è reale.
La fotografia è sempre stata l’occhio oggettivo per eccellenza, strumento per testimoniare e documentare la realtà nella sua forma più veritiera, reale. Ma quando la realtà esposta viene volontariamente modificata? Cosa succede se l’artista interviene su ciò che comunemente tutti vediamo, sentiamo, percepiamo? Crediamo o meno a ciò che vediamo?
Credere e Vedere si rapportano nella storia in modi quasi equivalenti, dove uno diviene la successione o la negazione dell’altro. Vedere per credere o, secondo un messaggio evangelico e di fede, beati quelli che pur non avendo visto crederanno. Ci viene inevitabile pensare alla fotografia come mezzo documentario per credere, per mostrare al mondo (se si tratta di fotoreportage) una realtà vera, condivisa, puramente ed essenzialmente oggettiva. La conoscenza mediata attraverso la fotografia presuppone un sapere; ma alla base dell’io so ci sta un fondamentale io credo.
Crediamo dunque a ciò che ci mostra Paolo Gidoni, crediamo alle sue luci fluttuanti, ai suoi alberi, ai suoi giochi fatti di contrasti, di colori, alla luna, madre e musa indiscussa di tutti i generi artistici. Crediamo alle sue fotografie, ai suoi paesaggi, al meraviglioso – quasi divino – rapporto tra microcosmo e macrocosmo.
Ciò che ci è necessario sapere per comprendere l’arte di Paolo Gidoni è che si tratta di opere fotografiche realizzate da un non-fotografo. La quotidianità, o meglio, l’osservazione della quotidianità lo ha spinto a elaborare un’arte attraverso lo strumento più comune e diffuso ai giorni nostri: il cellulare.
La possibilità condivisa di fare e produrre fotografia ogni istante delle nostre vite non ci qualifica immediatamente come “fotografi”; ed è dunque per questa ragione che è ancora più difficile creare arte quando l’atto potenzialmente artistico è divenuto comune. Ciò che rompe lo schema della monotonia e della quasi banalità sono i frammenti, le sfumature poetiche che conferiscono unicità all’opera nonostante la serialità della sua riproduzione. Se partiamo dal concetto che le fotografie altro non sono che frammenti della realtà, non ci sarà difficile elaborare il processo artistico operato da Paolo Gidoni. Il frammento è la forma che può essere riprodotta, modificata, ampliata, accostata secondo visioni assurde, surrealiste, senza perdere però la propria matrice originale: la realtà. Si tratta di un elemento vivo, genitore di molteplici possibilità e trasformazioni, collegamenti con altre realtà radiali, parallele, sovrapposte.
Ecco che il cellulare, oramai strumento d’artista, permette di riprodurre questi frammenti, o meglio screenshots, visioni ritagliate e modificate secondo un’idea che sta alla base del processo artistico. Gli screenshots divengono espressione di un’idea tratta dalla realtà e mediata dalla tecnologia.
Vittoria Grazi
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