Coscienza e conoscenza: l’io e il noi di Terry Atkinson Di Elena Forin Quando nel 1974 Terry Atkinson lascia Art&Language, ha trentacinque anni e un percorso artistico già solido e ben consapevole. Il terreno su cui si svolge la sua indagine è quello del presente in cui vive, e di cui mette in discussione le dinamiche. Le guerre, che ritiene forme di azione politica condotte con altri mezzi, sono uno dei suoi bacini di ricerca, ma da sempre, anche prima dell’esperienza di gruppo, al centro del suo interesse c’è anche la volontà di indagare il linguaggio stesso dell’arte. Da più di sessant’anni Atkinson lega infatti le dinamiche della storia dell’uomo a quelle dell’estetica, intrecciando le tensioni del comporre a quelle dell’individuo e del suo agire il mondo. Questa mostra, che segna il ritorno alle attività espositive della Galleria l’Elefante dopo la perdita dell’amato Cesare Misserotti, è quindi un modo, attraverso una accurata selezione di opere, non solo di ripercorrere alcuni momenti cruciali del lavoro dell’artista, ma anche di individuare un percorso che traccia una linea tra la storia del tempo, dell’arte e dell’uomo. Art&Language nasce nel ’68 grazie all’iniziativa di quattro artisti (David Bainbridge, Michael Baldwin, Harold Hurrell e appunto Terry Atkinson) che sentono la necessità di mettere in discussione pratiche e rappresentazioni consolidate del sistema dell’arte: sulla forza di questa attitudine critica si sviluppa un dibattito che tra il ’68 e l’82 raccoglie intorno al gruppo quasi una cinquantina di artisti. Atkinson però, nell’evolversi del pensiero e delle ideologie del movimento, rintraccia aspetti che non gli appartengono più: è il concettualismo stesso secondo lui a giungere gradualmente a una forma di inevitabile “calcificazione” , e dal ’74 abbandona la prospettiva del “Noi” per tornare a quella dell’”Io”. In questo passaggio from the “we” to the “I”, la prospettiva offerta dall’ampio tema del linguaggio continua però a essere per lui il nodo cruciale a cui rivolgere attenzione: Tank, realizzata nell’arco temporale tra il 1965 e 1974, è emblematica di questo legame e traduce i temi della produzione singola o di gruppo attraverso la trasposizione di parola e segno in forma. Le serie successive, in particolare Enola Gay ma anche i Grease works, di cui vi sono diversi esempi nel percorso espositivo, si focalizzano invece sui temi nodali dell’espressione artistica: Atkinson mette in discussione le forme iconiche e istituzionali del modernismo trasgredendo dalla statica stabilità del monocromo attraverso l’impiego di tavole dalle forme irregolari e stondate (Enola Gay), e sporcando il gesto e la formalità degli impianti minimali con l’uso di materiali da officina come l’olio lubrificante (Grease works). Se l’astrattismo è l’oggetto delle attenzioni di Atkinson in questi due gruppi di opere, la figurazione vera e propria è un tema presente in maniera trasversale in tutto il suo percorso, dagli esordi fino alle ultime produzioni. Le Goya series in questa prospettiva costituiscono un nucleo particolarmente significativo e non solo perché il riferimento all’autore è il pretesto per parlare delle macerie del presente, ma anche perché il trattamento della materia contribuisce a rendere sempre più ambiguo e flessibile il limite verso l’astrazione. Più chiari e nitidi sono invece i disegni degli anni sessanta, delle piccole carte in cui il segno si compone netto e si sporca quando deve tradurre l’orrore e la ferocia, mentre negli ultimi anni, sempre attraverso il ricorso a iconografie e modelli compositivi storici e classici, Atkinson realizza disegni accurati e intensi per raccontare i conflitti dell’Iraq o la guerra civile americana. In questa serie nello specifico, le opere in mostra documentano l’eco tra la storia del mondo e quella dell’individuo: in American civil war: Study 26 del 2018, in cui grafite e collage compongono un’opera straordinaria per intensità e lucidità, l’artista libera un messaggio particolarmente vibrante. Prima del 1861, dice nella didascalia, gli Stati Uniti avevano, anche dal punto di vista del linguaggio, un’identità plurale (“the United States are a Republic”): la guerra ha però segnato uno spartiacque nella transizione verso il nome singolo. Ancora una volta quindi, passaggio da “the we to the I”, torna per lanciare una prospettiva, questa volta in chiave geo politica. Il punto di vista di Atkinson è chiaro, e si riverbera nella potente efficacia delle parole, oltre che nella drammaticità composta del compianto: tutta la sua opera del resto, non è che una mappa che disvela gli stretti legami tra immagini, simboli e testi. Nessuno di questi elementi è neutrale, e ogni dettaglio è una lente di ingrandimento sulla cifra del potere spesso nascosto in ogni messaggio: anche per questo di solito il suo lavoro è definito “politico”, e certamente lo è. Eppure, il piano principale, almeno secondo chi scrive, è quello di un approccio che per la sua capacità di analisi e per l’attitudine a sviluppare coscienza, è un profondo lavoro di “conoscenza”, è studio puro del valore del tempo e delle attitudini dell’uomo nella lettura e nella partecipazione al tempo stesso: ed è nell’intrecciarsi di questi nodi che si traduce la sobria ma potente monumentalità della sua indagine.
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